Un romanzo onesto

Voglio scrivere un romanzo onesto. Non so dire esattamente che cos’è un romanzo onesto, ma penso di avere un’idea di che cosa non lo sia. Non è onesto un romanzo troppo difficile da leggere. Non è onesto un romanzo che non possieda una bella storia (dove bella può voler dire consistente, ben congegnata, avvincente). Non è onesto un romanzo di cui non si possa stabilire un senso e un messaggio. Nota bene: questo messaggio può essere complesso, ramificato, addirittura contraddittorio; bisogna che se ne stia accuratamente nascosto fra le pieghe della storia; è meglio che non sia banale né troppo facilmente comprensibile. Ma questo conta fino a un certo punto. Quello che conta davvero è che il messaggio esista e non sia generico, arbitrario. Il lettore di un romanzo onesto deve sì ingegnarsi per cercare di scoprirne il messaggio, e può anche darsi che non riesca a farcela, ma non deve assolutamente avere l’impressione che la sua ricerca sia senza senso, che sia una ricerca di qualcosa che non c’è. L’autore di un romanzo onesto deve sapere in ogni momento quello che fa.
Un romanzo non è onesto se non ha dei personaggi onesti. E un personaggio non è onesto se non continua anche oltre il bordo della pagina. Quello che ancora mi manca per potermi mettere a scrivere il mio romanzo onesto è proprio un bel gruppo di personaggi con queste caratteristiche. Per il momento ho con me soltanto un personaggio, e anche questo non è che un abbozzo, un’immagine. È come se l’avessi conosciuto da poco e non sapessi ancora nulla del suo vero carattere e della sua vita passata. La tentazione è quella di prendere questo personaggio e di dirgli che cosa deve fare, prima ancora di sentire dalla sua voce che cosa lui vuole fare. Gli ho dato un nome stupido, Jim Potato, che chiaramente non è il suo. (Del resto in qualche modo devo chiamarlo.) Ho un po’ paura di quello che Jim Potato potrebbe voler fare. Magari è qualcosa che non va per niente d’accordo con il romanzo che ho in mente, qualcosa che scombinerebbe tutte le mie carte e mi costringerebbe (se mai ci riuscissi) a scrivere un altro romanzo. Ma fermiamoci un attimo: che cosa ho davvero in mente? Quali sono le mie carte? Perché dovrebbe essere un problema lasciarsele scombinare?
Jim Potato e l’idea di questo romanzo mi si sono fatti incontro assieme: è logico supporre che possano andare d’accordo. La cosa migliore sarebbe fidarsi di loro e sperare che vogliano collaborare. A dirla tutta, io sono ben lontano dal sapere esattamente che cosa voglio scrivere. Intendo dire, quale messaggio esprimere. Ho delle idee, ma io stesso non le conosco del tutto e a volte non ci credo fino in fondo. L’unica differenza che queste idee hanno rispetto alle idee qualsiasi (cioè alle idee che mai mi verrebbe in mente di inscatolare in un romanzo) è che mi piace pensarle. Mi seguono quando passeggio. Sono un sottofondo piacevole prima di addormentarmi. (Piacevole non nel senso di tranquillo o rilassante, ma di intellettualmente stimolante. Quanta angoscia, a volte, in queste idee piacevoli!) Potrei scrivere qualsiasi cosa, e queste idee verrebbero a galla comunque, spontaneamente. Non possono sfuggirmi di mano. Non corro il rischio di mancare il bersaglio.
Dunque, per cominciare, se voglio scrivere un romanzo onesto devo lasciare un po’ di mano libera a Jim Potato.
Perfetto. Ma come faccio?
Accetto suggerimenti. È una cosa nuova, per me. A scrivere poesie, credo di aver imparato come si fa. Non so come, ma le poesie mi vengono. Non sono certo poesie perfette o indispensabili o totali, ma sono senz’altro poesie oneste. In esse parla un certo Guido, il Guido-che-scrive-poesie, ben diverso (mettiamo) dal Guido-che-esce-a-bere -una-birra-con-gli-amici o dal Guido-che-analizza-spettri-di-quasar. Ma questo Guido parziale che scrive poesie è comunque un Guido onesto, che pensa quello che dice e vuole dirlo in un certo modo (poetico). Invece, non esiste ancora un Guido-che-scrive-romanzi.  Ce n’è uno che scrive raccontini (e che vorrebbe tentare il gran balzo) ma non è sempre molto onesto. Penso che a questo punto sia chiaro che cosa intendo.
Questo Guido, da oggi, cercherà di parlare un po’ di più con Jim Potato.

6 pensieri riguardo “Un romanzo onesto”

  1. …ma qui si cita Saba, o sbaglio??? 🙂

    A me Jim Potato sembra già molto. E che ci pensi prima di addormentarti, poi, mi sembra praticamente tutto.

    Una cosa che ho imparato leggendo i manoscritti della Casetta Editrice, è che tutti gli esordienti tendono inesorabilmente a raccontare la LORO storia, la loro storia umana, credendo che questo sia fare letteratura. Magari cambiano un po’ i nomi, barano sull’età o su alcune circostanze, ma il concetto di fondo è sempre quello. Lo capisci a pagina due che questi scrittori non stanno cercando di raccontare una storia, ma di mettere nero su bianco le loro cose, quello che per loro è importante, i punti cardinali della loro esistenza. Il problema è che la storia umana di una persona è argomento di cui parlare con gli amici, non materia letteraria (ovviamente ci sono le debite eccezioni, ma non tutti possono essere Primo Levi).

    Non so se questa considerazione è utile, anzi di sicuro non lo è, ma serve per dire che le carte che hai messo sul tavolo in questo post mi sembrano più che buone, per evitare di cadere nell’autoreferenzialità fine a se stessa e andare a costruire qualcosa di davvero significativo, di solido. Poi ci vanno tempo, e pazienza, e una buona quota di frustrazione.
    Ma, alla fine, se Jim Potato già c’è, sono certa che da qualche parte arriverà. Non ho dubbi al riguardo.

    1. Giulia,

      hai ragione. La tentazione a parlare di sé è sempre in agguato. E in un certo senso non si può fare a meno di parlare anche di sé. Jim Potato (che in questi giorni ha cambiato età e carattere) ha indubbiamene qualche cosa in comune con me, soprattutto nel modo di pensare. Ma in tutta onestà non so se potremmo essere amici. E a lui succede qualcosa che a me dubito succederà mai. Qualcosa che spero possa interessare anche ad altri, oltre che a me (e a lui).

      La mia unica paura, al momento, è cominciare a scrivere troppo presto. Jim Potato c’è, ma non spiccica parola. Devo aspettare che si sciolga un po’, senza farmi prendere dalla frenesia. (Sbaglio, o ne sai qualcosa anche tu? Quando parli di tempo, pazienza e frustrazione…)

      Grazie della lettura e dell’incoraggiamento!

      Ciao,

      G

      P.S. Ho citato Saba senza volerlo e senza saperlo… 🙂

  2. C’era un uomo di nome Jim Potato

    che sempre in soffitta stava serrato

    e, senza alcun consesso,

    lui mutava se stesso:

    timido trasformista quel Potato!

  3. Caro Guido,
    rispondo qui alla sua replica sul sito di Giulio Mozzi perché non sono sicuro che verrebbe pubblicata. Intanto scopro il suo sito e ancora di più mi stupisco che un poeta come lei non sia sensibile alla scrittura preziosa. Non professo il culto dello scrittore romantico che si distingue dal vulgo ed è illuminato dalla musa. Ma voglio che si faccia la differenza fra Moccia e Pontiggia. Il lettore è libero di leggere quel che gli piace, ma la società civilizzata deve in qualche modo incoraggiare e privilegiare le letture che nutrono il pensare. Oggi nessuno è più abituato al pensare. La gente capisce solo l’immagine. E’ vero solo quello che è visibile, magari in televisione. Leggere per pensare è diventata un’attività obsoleta. Il libro, quello profondo, serve a coltivare la capacità di astrazione. E’ semplicemente questo che voglio salvare. Non mi sembra snobismo e neppure totalitarismo.
    Cordialmente
    B.M.

    1. Caro Bernardo,
      la ringrazio della sua visita e del suo commento. Preciso subito che la mia risposta sul sito di Giulio Mozzi non voleva essere né polemica, né personale. Secondo me avete ragione entrambi. Di sicuro c’è differenza tra Moccia e Pontiggia e di sicuro la televisione non può porsi come sostituto al libro. Io non credo che Mozzi volesse dire questo; secondo me, voleva soltanto sottolineare il rischio che si corre a voler delimitare a tutti i costi una “cittadella della letteratura elevata”, dentro la quale questa letteratura elevata risulterebbe semplicemente prigioniera di sé stessa. Secondo me, l’italiano medio preferisce Moccia a Pontiggia (continuo a utilizzare questi due nomi a puro titolo di esempio) perché, tra le altre cose, sente il primo più vicino, meno snob, più rispettoso dei suoi gusti. È vero, un letterato serio non deve preoccuparsi troppo di titillare il gusto del pubblico, ma di certo non fa bene a disprezzare in toto tale gusto. Le osservazioni di Marani, Tuena e Albani, secondo me, esibiscono proprio questo tipo di disprezzo: non solo nei confronti degli autori cosiddetti bassi, ma anche e soprattutto dei loro lettori. Prenda Simenon: i suoi romanzi, gialli e non, sono senz’altro “spigliati e accattivanti” e si leggono tutto d’un fiato (Simenon stesso li scriveva tutto d’un fiato). Secondo il metro di Marani, dunque, non sarebbero “opere letterarie”, ma semplici romanzetti. Ebbene, io le garantisco che in questi romanzetti ho trovato più letteratura e più sentimento umano che in molte altre opere osannate dai critici accademici. Per questo continuo a essere scettico riguardo all’idea di valutare i libri in base a un criterio di appartenenza o meno alla “cittadella” di cui sopra.
      Ora che ho capito meglio il suo pensiero, comunque, non percepisco una reale contrapposizione fra le nostre rispettive posizioni, e neppure fra le sue e quelle di Mozzi. Sarebbe bello discuterne direttamente con l’interessato: non credo che censurerebbe i suoi commenti. Se vuole possiamo proseguire la conversazione di là, visto che qui nel mio blog passa poca gente. In ogni caso, sarò ben felice se vorrà tornare a leggermi.
      Grazie e a risentici,
      G

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